MIMINO MICCOLI E I PRESEPI di Franco Presicci

   “Che Natale sarebbe senza presepe?”, dice un amico che già quando era un moccioso faceva da assistente al nonno che allestiva presepi così grandi da dover impegnare allo scopo un un’intera stanza. “Quando il caro vecchietto ci lasciò il suo posto venne assunto da mio padre, che è ancora vivo, ma poi, stanco e mal ridotto, ha affidato l’incarico a me. Si limita a fornirmi suggerimenti, e guai se compio un errore di prospettiva. E ha ragione: la prospettiva è importante. Se manca il presepe è piatto”.

   Per fare un bel presepe occorre talento, arte, immaginazione, esperienza. Come ne hanno quelli che in san Gregorio Armeno, a Napoli, via nota in tutto il mondo, realizzano grotte e statuine bellissime e molto espressive. Sotto il Vesuvio la passione del presepe è sempre stata diffusa: nel secolo XVII, molto prolifico da questo punto di vista, persino il re Caro III, nelle ore di riposo, tirava su capanne e grotte, alberi e pendii, mentre la consorte curava con maestria gli abiti di madonne, lavandaie, magi e via dicendo. Nell’affollato Museo del presepe di Brembo di Dalmine (Bergamo) accanto a scenografie provenienti da tutto il mondo sono allineate quelle più esemplari arrivate dalla Campania e dalla Puglia.

   In ogni casa in Italia e altrove si fabbricava il presepe: aristocratici e borghesi non si sottraevano al manufatto. E il popolo neppure. Certo i proletari non disponevano dei mezzi dei signori, ma per quanto riguarda i risultati facevano la loro esaltante figura. Non mancavano, e non mancano, i laboratori visitati da indigeni e turisti. Ammirati dalle scenografie suggestive create da autenticii artisti (tali sono certi presepisti). Elena Sica riferisce, che nel primo Ottocento la viaggiatrice tedesca Fiederick Burn, dopo aver contemplato una delle tante rappresentazioni plastiche, così si esprimeva: “Attraverso un paesaggio boscoso e roccioso, attraverso ruscelli r profonde valli si snoda il pomposo corteo dei re magi, ricco di doni orientali; sono accompagnati dalla servitù su dei bei cavalli riccamente bardati e cammelli, dromedari e asini carichi di oggetti preziosi”. Nel presepe partenopeo, oltre alle figure canoniche, come il guardastelle, i pastori che portano a spasso il loro gregge, il ciabattino, la lavandaia, il pescatore (l’acqua è uno degli componenti-simboli del presepe, come il fuoco con il forno, la fiammella sotto il treppiede; la luce che illumina grotte e sentieri), compaiono personaggi della vita quotidiana, come la casalinga che cala dal balcone il cestino legato a una corda per prendere la spesa fatta dal marito, ed esponenti politici che si esibiscono nei cosiddetti salotti televisivi, e il più amabile Pulcinella, maschera storica napoletana che fu interpretata in teatro anche da Eduardo De Filippo. 

    Nel presepe lombardo sino a qualche tempo fa erano assenti le figure del pizzaiolo e del pescivendolo: sono comparsi con l’immigrazione dal Sud, probabilmente incrementandosi nel ’29, quando nel ristorante Santa Lucia, in via Agnello, frequentato da Eduardo, Totò, Wanda Osiris, Gabriele d’Annunzio…, si accese il forno per fare la prima pizza, che, detto per inciso, non riportò subito il successo che ebbe in seguito: i primi divoratori furono i poliziotti della questura, che allora era in piazza San Fedele, a due passi dal ristorante che la serviva. In passato, nei presepi non c’erano pescivendoli, ortolani con sacchetti di frutta sulle spalle, ciabattini, ma spesso, specie nel presepe napoletano, entrava il venditore di maccheroni, piatto per il quale i campani andavano matti. Nei presepi milanesi sono ben piazzati gli ambulanti, ma nella realtà le voci degli arrotini, degli impagliatori di sedie, degli ombrellai, degli spazzacamini…. sono scomparse: fanno parte della storia. E della storia fa parte il fondale con foglio di carta azzurra, poi sostituita da paesaggi dipinti.

   Nel presepe leccese troviamo di solito l’albero della cuccagna, che s’innalzava davvero nelle piazze nella ricorrenza della festa del patrono o nelle altre feste comandate; e il ficodindia; il banco del venditore di angurie, i suonatori che portano le serenate… Il presepe popolare non aveva e non ha lo sfarzo di quelli patrizia con tanto denaro a disposizione: non poteva certo permettersi la sontuosità del presepe del re di Napoli: si serviva di ciò che poteva recuperare, ma il risultato che ottenevano, e ottengono, ha il suo fascino, la sua magia. Il presepe è anche una favola, che ognuno interpreta come meglio gli aggrada. Il presepe che nasce nelle case è più pittoresco, più spontaneo, più libero. Ora è diffusa la moda di far nascere Gesù in un trullo, in un appartamento, nell’androne di uno stabile, ma qui il presepe, a mio avviso. perde il suo incanto, nonostante – osserva Grazia Spataro della Casa del presepe che ha sede a Taranto – “ai nostri giorni per la confezione del presepe c’è tutto quel che serve, comprese le statuine di ogni genere e tipo”.

   Ci sono tanti modi di fare il presepe. C’è chi lo alloggia in una valigia; chi nel guscio di una noce; chi in una noce di cocco. Mimino Miccoli, uno scultore di grande talento di Statte (provincia di Taranto), ex dipendente dell’Arsenale della bimare, ricorre a ogni materiale (dadi, bulloni, viti con la testa a brucola o a croce, ganci, piastre di giunzione, tiranti, moschettoni, filo di ferro e altro, molle…), ottenendo opere d’arte vere e proprie, che regala agli amici più cari (un esemplare alla Società operaia di mutuo soccorso). Miccoli non esegue soltanto ricostruzioni della Natività, crea anche don Chisciotte in vari atteggiamenti, qualche volta con il suo Sancho Panza al seguito. Ed è così efficace, il suo personaggio, sia pure nell’interpretazione sintetica dell’artista, che l’osservatore s’immagina il protagonista del libro di Miguel de Cervantes Saavedra e le sue imprese dedicate a una giovane contadina, Aldonza Lorenzo trasformata nella sua fantasia in una nobildonna, Dulcinea del Toboso. Miccoli è artisticamente attratto dalla figura di don Chisciotte, e lo rende in tutti i suoi atteggiamenti di cavaliere errante.

   Al suo attivo Miccoli ha tante altre realizzazioni, tutte originali e di alto livello. Come i suoi presepi. Eccone uno eseguito credo recentemente. L’ho visto, ne sono rimasto colpito, e gli ho telefonato. Facendogli alcune domande. Per esempio sui materiali da lui adottati: “Quello di cui parli è in garza metallica che avvolge cavi coassiali per trasportare le varie frequenze di onde radio. La base, una scheda elettronica; mentre il resto si compone di varie cianfrusaglie con parti di selettori di centrallizzate”. Insomma ferramenta di ogni genere, e altro, che Miccoli assembla per i suoi capolavori.

   Meriterebbe che un critico consacrato si scomodasse per puntare la sua attenzione su questo talento, che ebbi modo di conoscere – grazie a Michele Annese, già direttore della Biblioteca “Carlo Natale”, che a Crispiano, in provincia di Taranto, è stata anche fucina di attività artistiche e culturali (durante la guerra i tarantini vi si trasferivano per sfuggire alle bombe) – in una interessantissima manifestazione nella masseria Pilano. In quell’occasione, dove circolavano anche figuranti vestiti da briganti e c’erano donne che usavano il fuso o il telaio, Mimino Miccoli esponeva su un banco i suoi don Chisciotte nel suo portamento severo e baldanzoso, con tanto di lancia e cappello che ricorda quello dei preti. Prima di dar vita al suo “eroe” Miccoli deve aver letto e riletto le pagine del Cervantes, per cui il don Chisciotte lo conosce bene e lo rappresenta con gli aggeggi che ha disposizione: dadi, bulloni e compagnia. Con i quali mette in piedi, come detto, natività con una buona espansione nello spazio e una delicata e profonda meditazione.  

                                                                                                           Franco Presicci   

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