Racconti in quarantena – L’ANGELO MUTO di Mario Narducci

L’AQUILA – Ci sono angeli fatti a posta per stare sulla terra, anche se sono stati creati per il cielo. Sono gli angeli dalle ali brevi come quelle dei gabbiani, che per quanto possano volare finiscono sempre con il riparare sugli scogli, e perfino sui tetti delle case a mare, come è accaduto in tempo di pandemia, quando molte specie animali hanno riconquistato spazi dai quali erano stati cacciati dalla civiltà. E ci sono gli angeli dalle ali robuste che si spiegano come alianti per i cieli, a guisa di aquile dallo sguardo acuto che dalla terra hanno tutto, anche la vita da trasmettere ai piccoli nei nidi appollaiati tra le rocce di montagna.

Altri angeli, pur avendo le ali, hanno rinunciato ad usarle per camminare con gli uomini fin dalla loro nascita, e sono i loro custodi, silenziosi e invisibili, anche se ogni tanto ci si tocca la spalla come ad afferrare con dolcezza una mano che non c’è. E ci sono infine gli angeli che le ali non le hanno più, perché hanno scelto un luogo dove stare e dal quale non si spostano mai, e perché sono gli uomini che li vanno a trovare, per un dialogo del silenzio che copre tutte le parole di questo mondo.

L’Angelo Muto era uno di questi ultimi. Era sceso, un giorno immemorabile, dalle vastità del cielo, dopo aver avvertito per secoli un crescente bisogno di contatto umano. Dio era grande, troppo grande per lui. Anche se agli ultimi posti, al suo apparire doveva coprirsi il volto con le ali, perché altrimenti non ne avrebbe retta la luce. Delle schiere angeliche egli apparteneva alla più umile, che pure comprendeva gli arcangeli gloriosi, quelli, che nella Bibbia vengono inviati da Dio quali messaggeri a portare grandi, rivoluzionari annunci. Uno d’essi era stato Gabriele, che oltre duemila anni fa volò verso Nazareth per dire alla sconosciuta vergine Maria che avrebbe partorito un figlio il cui nome sarebbe stato Gesù.

Era ancora più piccolo di un arcangelo, figuriamoci se poteva reggere il confronto con i serafini e i cherubini, che stavano sempre accanto al trono di Dio guardandolo faccia a faccia. Apparteneva alla schiera più vicina agli umani, e per questo gli era rimasta dentro quella inspiegabile nostalgia che gli guadagnò il permesso del Padreterno di trasferirsi definitivamente sulla terra. Il suo fu un volo vertiginoso, per un istante sembrò un’aquila in picchiata verso la preda, e quando si fermò, s’avvide che era rimasto senza voce; ma non si rammaricò più di tanto quando s’accorse d’essere diventato il mascherone dolcissimo, da tenero putto, di ghisa dal quale fiottava ininterrottamente acqua del Gran Sasso, copiosa da bastare alla ressa di studenti che ogni mattina entravano e uscivano dal Liceo della città.

Nessuno saprà mai dire quanti amori abbia visto nascere l’Angelo Muto. E di questi amori era diventato il confidente, quando le giovani bocche si aprivano al sorso d’acqua chiara che rinfrescava la gola e inteneriva il cuore. C’era la fila davanti a lui. Che non si spazientiva mai e che anzi si preoccupava se qualche assenza gli cambiava umore. Dalla parete del Liceo egli aspettava sempre. Sapeva che prima o poi tutti sarebbero tornati. La fontanella era la sua casa, e l’acqua che sgorgava dalla sua bocca fino a riempire la piccola vasca semicircolare, era diventata per tutti la sua voce, che conteneva tutte le parole possibili che ragazzi e ragazze sembravano raccogliere con sorsi avidi per tradurle in parole d’amore.

Luigi e Chiara, Roberto e Teresa, Augusto e Leonora. Un lungo elenco di tenerezze acerbe. Qualcuna, certo, si sarebbe poi persa per strada, ma nessuno avrebbe più dimenticato quel senso di pienezza interiore, a mezzo tra malinconia e felicità, che gonfiava il petto come un otre degli antichi pastori, ogni qualvolta un sorso da primo amore frammuoveva le viscere, perché è la pancia, prima che il cuore, ad avvertire l’effetto dell’innamoramento, a far capire ai vergini d’essere stati invasi dall’amore.

Poi la terra tremò. La diaspora portò gli studenti del centro verso le periferie, anche quelli del Liceo che si persero tra bibite zuccherate e cornetti negli assonnati bar della prima mattina. L’Angelo Muto restò solo tra i calcinacci delle macerie, e l’acqua gli si strozzò in gola con tutte le parole che un tempo si portava dietro. Tutto il centro divenne un deserto, fatto di zone rosse inaccessibili. Chiusero i mille negozi, si arrestò il passeggio per il corso soppiantato dai centri commerciali, e quando piazze e vicoli incominciarono ad essere invasinvasi da gru che fendevano il cielo come sciabole lunghe, qualcuno si ricordò anche di lui, dell’Angelo Muto che non avendo più ali, non era potuto trasmigrare negli asili d’emergenza, lungo la costa, né tornarsene al cospetto di Dio, che forse manco lo avrebbe voluto più.

Una mano pietosa, un giorno, lo trasse dalle macerie: i reggitori della città lo ricollocarono al suo posto e restaurarono la fontanella, ma senza ridargli l’acqua della parola se non dopo lungo silenzio, e soprattutto senza riportare gli studenti in centro, che erano stati la ragione della sua discesa in terra. Qualcuno dice che da allora meno amori siano sbocciati tra loro; altri asseriscono che siano sbocciati ugualmente, di primo mattino, tra i tavolinetti del baretto accanto alla scuola. E che comunque anche se nati, non è più la stessa cosa perché un confidente silenzioso è venuto a mancare e perché l’Angelo, sempre più solo, è diventato triste come l’ultima foglia di un noce rigoglioso, perdendo, dicono, anche il sorriso. Perché quando ci si ammala di malinconia, nemmeno più il sole basta a ridarci allegria.

Mario Narducci

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